viernes, 29 de enero de 2016

DIARIO 27/01/2016

Durante la lezione di oggi abbiamo riflettuto, tra le altre cose, sul concetto di repertorio linguistico e sul fatto che, utilizzando una similitudine di Carlos a mio avviso molto appropriata, il repertorio costituisce un armadio, un armadio in cui mettiamo abiti diversi che scegliamo di indossare a seconda delle diverse situazioni.

Ed ecco che riflettendo sulla lezione, mi è tornato in mente un articolo della scrittrice italiana Carmen Covito intitolato Alla ricerca della lingua italiana:l'Italiano integrato che credo possa rappresentare un interessate spunto di riflessione sull’attuale situazione del repertorio linguistico italiano.

Partendo dal concetto di lingua nazionale e di cosa intendiamo per lingua nazionale, Carmen Covito fornisce una chiave di lettura molto interessante e, a mio avviso, perfettamente condivisibile.

L’autrice esordisce affermando che la lingua nazionale non è più un’utopia, bensì una realtà. Stando ai dati pubblicati dalla Doxa, 86 italiani su 100 parlano l’italiano e, tra questi, 24 non usano più il dialetto, 62 sono in grado di alternare l’italiano e il dialetto a seconda del contesto e solo 14 “individui”, paragonati a dialettofoni in via di estinzione, usano solo il dialetto. 

L’italiano standard è, dunque, un dato di fatto e sicuramente sia la radio, ma soprattutto la televisione, hanno portato avanti una vera e propria rivoluzione linguistica che, in poco più di mezzo secolo, ha risolto la plurisecolare “questione della lingua”.

Carmen Covito, una volta chiarito che non spetta a lei accettare o respingere i nuovi usi linguistici, sostiene che il suo compito, come scrittrice di romanzi, sia quello di captare e registrare lo standard dell’italiano parlato, per poi integrarlo nella sua scrittura letteraria.
All’interno del panorama della letteratura italiana, Covito individua due tipologie di scrittori: da una parte gli “scrittori-letterati
per i quali la lingua parlata non solo “non esiste”, ma addirittura è vista come un’intromissione che infastidisce; loro preferiscono continuare a scrivere utilizzando registri aulici e si servono di una lingua “neutra, liscia, depilata e deodorata da ogni sentore di vita”

Questi scrittori, che spesso sono anche giovani scrittori, ambiscono a scrivere “bene”, laddove per “bene” si riferiscono esclusivamente al rispetto delle regole semantiche e stilistiche dell’italiano normativo; la Covito li definisce C.N.S.E.A.D.N. (che non si è accorto di niente) per via del fatto che ignorano l’importanza del dialogo che, invece, rappresenta il luogo privilegiato dove far convergere tutte le ricchezze della lingua parlata, grazie ai gerghi, ai dialettismi o alle sgrammaticature, che costruiscono un personaggio in seguito smascherato dal lettore.

 Inoltre, anche quando traducono, gli “scrittori-letterati”, molto spesso, tendono a tradire il teso “appiattendolo” e alzandolo verso un linguaggio aulico-letterario che non sempre rispetta l’originale.

Contrapposta a questa tipologia di scrittori, ci sono i nuovi narratori e i nuovissimi- nuovi che, attraverso scelte completamente opposte, si servono del “parlato
 non perché non sappiano fare diversamente, ma perché hanno adottato una scelta linguistica consapevole e coerente con le loro tematiche.

Tuttavia, utilizzare sempre e solo l’italiano standard potrebbe diventare una scelta non solo esclusiva, ma anche escludente, poiché si perderebbe lo spessore dell’italiano letterario che, seppure con i suoi limiti di artificiosità, è pur sempre dotato di una sua storia e di una realtà che non può essere cancellata.
Per cui, posta difronte a questo bivio, l’autrice propone una terza via
che si presenta come punto di incontro tra la lingua letteraria e quella parlata e il cui maggior rappresentante è, secondo lei, Alberto Arbasino, idolatrato come un’icona stilistica dalle nuove generazioni. 

La scelta di questa terza via ha come obiettivo quello di servirsi della duttilità e vitalità della lingua per produrre testi narrativi che accolgano al loro interno tutti i diversi registri, dai regionalismi, dialettismi, gerghi, parole straniere, ecc., ai termini più colti e a un uso più elaborato della sintassi. L’importante è saperli utilizzare al momento giusto e in un contesto appropriato.

Personalmente, sono d’accordo con Carmen Covito, poiché
considero che la grandezza della nostra lingua risieda proprio nella sua varietà e nella sua camaleontica possibilità di sapersi adattare ad ogni situazione. L’italiano, infatti, presenta un gran numero di sfumature, di sinonimi, di aggettivi che consentono di descrivere un oggetto, un luogo o una persona a seconda del contesto, del parlante o del momento storico; e questa grandezza non possiamo perderla. Bisognerebbe, quindi, essere in grado di sfruttare tutte le possibilità espressive offerte dalle situazioni reali e coniugare registri alti, medi o bassi, a seconda del punto di vista di chi parla. 

Solo così potremmo portare avanti quel processo di rinnovamento e, al tempo stesso, conservazione del nostro patrimonio linguistico. 




 

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