viernes, 29 de enero de 2016

DIARIO 27/01/2016

Durante la lezione di oggi abbiamo riflettuto, tra le altre cose, sul concetto di repertorio linguistico e sul fatto che, utilizzando una similitudine di Carlos a mio avviso molto appropriata, il repertorio costituisce un armadio, un armadio in cui mettiamo abiti diversi che scegliamo di indossare a seconda delle diverse situazioni.

Ed ecco che riflettendo sulla lezione, mi è tornato in mente un articolo della scrittrice italiana Carmen Covito intitolato Alla ricerca della lingua italiana:l'Italiano integrato che credo possa rappresentare un interessate spunto di riflessione sull’attuale situazione del repertorio linguistico italiano.

Partendo dal concetto di lingua nazionale e di cosa intendiamo per lingua nazionale, Carmen Covito fornisce una chiave di lettura molto interessante e, a mio avviso, perfettamente condivisibile.

L’autrice esordisce affermando che la lingua nazionale non è più un’utopia, bensì una realtà. Stando ai dati pubblicati dalla Doxa, 86 italiani su 100 parlano l’italiano e, tra questi, 24 non usano più il dialetto, 62 sono in grado di alternare l’italiano e il dialetto a seconda del contesto e solo 14 “individui”, paragonati a dialettofoni in via di estinzione, usano solo il dialetto. 

L’italiano standard è, dunque, un dato di fatto e sicuramente sia la radio, ma soprattutto la televisione, hanno portato avanti una vera e propria rivoluzione linguistica che, in poco più di mezzo secolo, ha risolto la plurisecolare “questione della lingua”.

Carmen Covito, una volta chiarito che non spetta a lei accettare o respingere i nuovi usi linguistici, sostiene che il suo compito, come scrittrice di romanzi, sia quello di captare e registrare lo standard dell’italiano parlato, per poi integrarlo nella sua scrittura letteraria.
All’interno del panorama della letteratura italiana, Covito individua due tipologie di scrittori: da una parte gli “scrittori-letterati
per i quali la lingua parlata non solo “non esiste”, ma addirittura è vista come un’intromissione che infastidisce; loro preferiscono continuare a scrivere utilizzando registri aulici e si servono di una lingua “neutra, liscia, depilata e deodorata da ogni sentore di vita”

Questi scrittori, che spesso sono anche giovani scrittori, ambiscono a scrivere “bene”, laddove per “bene” si riferiscono esclusivamente al rispetto delle regole semantiche e stilistiche dell’italiano normativo; la Covito li definisce C.N.S.E.A.D.N. (che non si è accorto di niente) per via del fatto che ignorano l’importanza del dialogo che, invece, rappresenta il luogo privilegiato dove far convergere tutte le ricchezze della lingua parlata, grazie ai gerghi, ai dialettismi o alle sgrammaticature, che costruiscono un personaggio in seguito smascherato dal lettore.

 Inoltre, anche quando traducono, gli “scrittori-letterati”, molto spesso, tendono a tradire il teso “appiattendolo” e alzandolo verso un linguaggio aulico-letterario che non sempre rispetta l’originale.

Contrapposta a questa tipologia di scrittori, ci sono i nuovi narratori e i nuovissimi- nuovi che, attraverso scelte completamente opposte, si servono del “parlato
 non perché non sappiano fare diversamente, ma perché hanno adottato una scelta linguistica consapevole e coerente con le loro tematiche.

Tuttavia, utilizzare sempre e solo l’italiano standard potrebbe diventare una scelta non solo esclusiva, ma anche escludente, poiché si perderebbe lo spessore dell’italiano letterario che, seppure con i suoi limiti di artificiosità, è pur sempre dotato di una sua storia e di una realtà che non può essere cancellata.
Per cui, posta difronte a questo bivio, l’autrice propone una terza via
che si presenta come punto di incontro tra la lingua letteraria e quella parlata e il cui maggior rappresentante è, secondo lei, Alberto Arbasino, idolatrato come un’icona stilistica dalle nuove generazioni. 

La scelta di questa terza via ha come obiettivo quello di servirsi della duttilità e vitalità della lingua per produrre testi narrativi che accolgano al loro interno tutti i diversi registri, dai regionalismi, dialettismi, gerghi, parole straniere, ecc., ai termini più colti e a un uso più elaborato della sintassi. L’importante è saperli utilizzare al momento giusto e in un contesto appropriato.

Personalmente, sono d’accordo con Carmen Covito, poiché
considero che la grandezza della nostra lingua risieda proprio nella sua varietà e nella sua camaleontica possibilità di sapersi adattare ad ogni situazione. L’italiano, infatti, presenta un gran numero di sfumature, di sinonimi, di aggettivi che consentono di descrivere un oggetto, un luogo o una persona a seconda del contesto, del parlante o del momento storico; e questa grandezza non possiamo perderla. Bisognerebbe, quindi, essere in grado di sfruttare tutte le possibilità espressive offerte dalle situazioni reali e coniugare registri alti, medi o bassi, a seconda del punto di vista di chi parla. 

Solo così potremmo portare avanti quel processo di rinnovamento e, al tempo stesso, conservazione del nostro patrimonio linguistico. 




 

DOSSIER 27/01/2016 CARLOS VALCARCEL

lunes, 25 de enero de 2016

DOSSIER 25/01 CARLOS VALCARCEL


DIARIO 25_01_CARLOS VALCARCEL


L’USO DEL BLOG IN CLASSE: 



La lezione di oggi mi è servita come spunto di riflessione circa l’importanza o meno di utilizzare un blog nell’insegnamento di una lingua straniera.

Fino a questo momento ho sempre evitato di utilizzare un blog in parte perché, riconosco, non sapevo come sfruttare le sue potenzialità e in parte perché, nonostante consideri che le nuove tecnologie siano importanti, ho sempre prediletto un approccio comunicativo basato soprattutto sull’interazione in classe.

Tuttavia, devo ammettere che in questo mio percorso di studi sto rivalutando positivamente l’utilizzo di nuove forme di comunicazione che sfruttano le potenzialità della rete, riuscendo in questo modo a raggiungere un pubblico più variegato, attraverso registri e forme di espressione diverse.
A questo proposito ho trovato un articolo molto interessante sull’uso del blog nella didattica dell’italiano. 

In questo articolo gli autori si soffermano ad analizzare le varie tipologie di blog (personale, di attualità, politico, tematico, etc.) per poi soffermarsi sul loro uso nella didattica.

La parte a mio avviso più interessante e sulla quale non avevo riflettuto sinora è quella in cui gli autori analizzano l’importanza che l'uso del blog riveste nel lavoro collaborativo e nella struttura ipertestuale, considerati elementi chiave che facilitano la creazione di strategie didattiche in grado di far emergere le conoscenze pregresse dello studente, allo scopo di aiutarlo a costruire la propria conoscenza.

Inoltre, il confronto con gli altri e il raggiungimento di un obiettivo comune aiutano gli studenti a prendere coscienza in modo autocritico delle proprie conoscenze e, dunque, a essere in grado di autovalutarsi durante il proprio percorso formativo.

L’articolo prosegue enumerando i vantaggi e i possibili usi di un blog quali, per esempio, consentire la produzione di vari tipi di testi, incentivare la creatività, costruire una sorta di portfolio online o offrire maggiori stimoli per portare a termine i compiti assegnati.
Infine, si propone un esempio di blog con possibili attività. 

E allora blog si o no?
Sicuramente il blog rappresenta uno strumento molto utile e credo che, se utilizzato correttamente, possa rappresentare una risorsa da integrare in una classe di L2, senza per questo dover rinunciare ad altre metodologie didattiche.

Finora ho sempre evitato le attività che richiedessero la creazione di un blog (spesso nei nuovi manuali si propone come attività la creazione di un blog di classe) ma devo ammettere che può fornire un valore aggiunto alle mie lezioni, aprendo nuovi percorsi didattici e spingendomi a intraprendere nuove sfide che mettano alla prova la mia capacità di rimettermi in gioco.

È probabile che in un futuro, forse non troppo lontano, comincerò ad usare il blog nelle mie lezioni, come fonte di nuove motivazioni e nuovi stimoli, in grado di arricchire il mio lavoro docente. 

domingo, 17 de enero de 2016

TEMA 8: MÉTODOS EN LA ENSEÑANZA DE LAS LENGUAS EXTRANJERAS

En este último tema hemos tenido la posibilidad de analizar los diferentes métodos y modelos para la adquisición de una L2 que desde el siglo XIX hasta nuestros días han ido evolucionando, desarrollando diferentes propuestas y enfoques de aprendizaje. En esta entrada analizaré brevemente las principales característica de cada método para, en la parte conclusiva, dar mi opinión sobre cuál o cuáles deberían ser los métodos aplicables en una clase de L2.



Veamos las características principales de cada método, diferenciando los que han nacido en EEUU de los que han nacido en Europa.

Entre los nacidos en Estados Unidos y en el mundo Anglosajón encontramos:

  •  Método Natural: Boston 1860. Saveur abre una escuela en Boston en 1860 y propone enfocar el aprendizaje de la segunda lengua de forma parecida al de la primera. Se evita la traducción, se empieza enseñando la pronunciación y se utilizan la música y la mímica. Este método sentará las bases del método directo.
  • Método Audiolingüe: “Método Fries”. Usado por primera vez tras la segunda guerra mundial, este método pretende potenciar las destrezas de comprensión y expresión oral para posteriormente desarrollar la comprensión oral y la escrita. Se basa sobre todo en ejercicios de memorización y repetición “drills”; el docente actúa como modelo a imitar y los elementos lingüísticos se contrastan siempre con la lengua materna.  
  • Respuesta física total: “Método Asher”. Nace en California en los años 70 y pone su énfasis en la comprensión oral, considerada más importante que las destrezas productivas. El significado de la lengua meta se comunica a través de acciones. El profesor actúa como director de una obra teatral; no hay libros, se usan juegos como el “Simon says”, y parte de la base que una lengua se aprende tal y como aprenden los niños su lengua madre. 
  • Método Oral y Situacional. Reino Unido. Empieza como continuación del método directo y se mantiene vigente durante los años 50. Parte de la base de utilizar en clase solo la lengua meta; se seleccionan el vocabulario y la gramática en función de las distintas situaciones, y la lectura y la escritura se introducen solo cuando el alumno posee un buen léxico y una buena base gramatical.
  • Método Comunicativo: Reino Unido. Nace en los años 70 como reacción a los enfoques exclusivamente gramaticales. Su principal característica es que los objetivos del curso deben reflejar las necesidades del alumno, potenciando tanto las destrezas lingüísticas como las comunicativas, en función del contexto en el que el alumno va a utilizar la lengua. Su principal objetivo es la comunicación; se prevén actividades que fomenten la acción y la interacción (actividad de role-play, problem solving, canciones, etc.), la gramática no representa un fin en sí misma y está basado en la centralidad del alumno.
  • Enfoque por tareas: “Project Work”. Mundo anglosajón e India. La organización gira alrededor de una tarea para desarrollar la competencia comunicativa del alumno. Todas las actividades son funcionales a la realización de una tarea final que permite alcanzar el objetivo previamente establecido. El aspecto más destacable es sin duda el papel activo del alumno; el profesor controla todo el proceso y propone actividades. Se apela a la creatividad y el resultado final de todas las tareas es la creación de un proyecto. 

  • Entre los métodos nacidos en Europa encontramos:

  • Método gramática traducción: “Método Prusiano”. Domina Europa entre 1840 y 1940 y considera que la lengua escrita es más pura que la hablada. Está basado principalmente en memorización, reglas gramaticales, textos bilingües, traducción, literatura, lectura y escritura. Se espera del alumnado que alcance un alto nivel de traducción y que sea capaz de comprender textos escritos en otra lengua.
  • Método directo: “Método Berlitz”. Francia y Alemania. Entre sus principales características encontramos el uso exclusivo de la lengua meta en clase: no se traduce, no se explica sino que se actúa, se hacen preguntas y se corrigen los errores en el momento.
  • Método del silencio: “Método Gattegno”. Egipto-Europa. Tuvo mucho éxito en los años 60 y su nombre se debe al papel secundario que toma el profesor frente al papel activo del alumno. La lengua se presenta como una serie de colores que representan sonidos vocálicos y consonánticos. No hay explicación gramatical, el profesor usa gestos y mímica, y se espera del alumno que adquiera independencia, autonomía y responsabilidad.
  • Sugestopedia: “Método Lozanov”. Bulgaria. Este método considera que el aprendizaje más efectivo es el que se realiza a través de la sugestión, eliminando todo tipo de estrés y ansiedad. El estudio de la gramática es mínimo, se fomentan las destrezas comunicativas orales, se realizan diálogos y traducciones, se usan canciones y se evita la corrección inmediata.


Tras conocer las principales características de los métodos comunicativos que se han ido desarrollando a lo largo de los años, creo que si bien hoy en día el más acorde con las directrices del MCR es sin duda el método comunicativo y el del enfoque por tarea, no podemos obviar las aportaciones que nos han ido ofreciendo las demás metodologías. Creo, por lo tanto, que en una clase de L2 deberíamos ser capaces de utilizar múltiples opciones. Si bien partimos de una base comunicativa, no podemos obviar la importancia que tiene generar un clima de aula sereno y relajado, así como utilizar técnicas variadas que espacien desde los “drills” a los ejercicios de traducción, o a los recursos teatrales de mímica y gestualidad. Saber elegir las actividades adecuadas determinará, sin duda, el éxito de nuestras clases.





martes, 12 de enero de 2016

TEMA 7: Estudios europeos sobre educación: España versus Finlandia


El Estudio Europeo de Competencia Lingüística (EECL) y la red Eurydice ofrecen, respectivamente, informaciones sobre competencias en lenguas extranjeras de los alumnos europeos al finalizar la Educación Secundaria Obligatoria, e informaciones sobre sistemas y políticas de educación europeas.

El EECL ponen de manifiesto que si bien España es el único país en el que la enseñanza de una primera lengua extranjera (inglés) es obligatoria desde la Educación Infantil, los resultados obtenidos en comprensión oral no son buenos (sólo un 12% de alumnos alcanza un nivel B2), siendo mejores aquellos obtenidos en comprensión lectora (18%). Estos resultados se deben principalmente al hecho de que la metodología de enseñanza ha privilegiado los contenidos gramaticales frente a una mayor exposición al uso de la lengua extranjera en el contexto social español. De hecho, la red Euryduce nos confirma que según los alumnos el profesorado normalmente no usa la lengua meta en clase, aunque sí lo hacen “de vez en cuando” o “con frecuencia”.  

Sin embargo, los datos cambian a la hora de analizar la segunda lengua que en el caso de España suele ser el francés, donde los resultados que obtiene España en comprensión lectora son los mejores, probablemente porque se trata de dos lenguas parecidas (el francés, respeto al inglés tiene la ventaja de tener, como el español, origen románico) o porque los alumnos se sienten más motivados al ser una asignatura escogida libremente.  

Por otra parte, estos informes destacan los buenos resultados de países como Finlandia que se sitúa a la cabeza del ranking de los resultados de PISA.

Cabe preguntarse, entonces, ¿porque Finlandia consigue ser el número 1 en Educación en Europa, siendo uno de los países cuyos niños no empiezan el colegio hasta los 7 años?


Podríamos resumir los puntos fuertes de la educación finlandesa de la siguiente manera:

-          Grupos pocos numerosos
-          Alto número de profesores de apoyo
-          Gratuidad desde preescolar hasta la universidad
-          Implicación de las familias
-          Recursos socio-culturales
-         Alta preparación del profesorado que debe superar una selección muy dura

Suponiendo ahora que quisiéramos “importar” el sistema finlandés al español ¿qué elementos educativos podríamos adaptar?

En primer lugar una reducción del número de alumnos a un máximo de 20 por clase, con al menos un 19% de profesores de apoyo, aumentar el tiempo de descanso entre una asignatura y otra e instituir clases de apoyo para padres de forma que puedan ayudar a sus hijos con los deberes.

¿Y qué cambios sociales podríamos proponer?

Empezaríamos por una mayor implicación de las familias, utilizando también plataformas informáticas; podríamos aumentar los permisos de paternidad/maternidad y ofrecer facilitaciones laborales para los padres; además, se deberían endurecer las pruebas de acceso a Magisterio, reduciendo el número de plazas y ampliando la formación con un máster con un 70% de prácticas docentes.

Finalmente, si quisiéramos proponer también cambios estructurales en el centro ¿qué medidas adoptaríamos?

Seguramente la primera medida sería la gratuidad de comedores, transportes y materiales escolares. Además, se facilitaría la contratación directa sin sistema de oposiciones, se reducirían las tareas burocráticas de los profesores y se fomentaría una participación activa del profesorado en las reformas educativas.

Pero… ¿llegará un día en el que estas propuestas consigan convertirse en realidad?


De momento los datos no parecen ir en esta dirección pero no debemos perder la ilusión de construir cada día un sistema educativo mejor.  







TEMA 6: CLIL: ¿UTOPÍA O REALIDAD?



El  Aprendizaje Integrado de Contenidos y Lenguas Extranjeras -AICLE (Content and Language Integrated Learning – CLIL) es una metodología que permite a los alumnos aprender los contenidos disciplinares en un idioma extranjero, mejorando al mismo tiempo las competencias lingüísticas. Disciplinas y lenguas se combinan para ofrecer a los alumnos una mejor preparación dentro de una Europa en la que la movilidad es una realidad cada vez más difundida. La Comisión Europea lleva años haciendo hincapié en la importancia de dominar por lo menos dos lenguas además de la lengua materna y así, pues, para adecuarse a esta necesidad, muchos de los países de la Unión Europea han promovido formas de enseñanza bilingüe que integren aprendizaje de idiomas y contenidos.
Entre los principios básicos del método AICLE/CLIL  se encuentran:

1) La lengua se usa para aprender contenido del área pero también hay que aprender la lengua con objeto de comprender y comunicar.
Eso quiere decir que el uso de la lengua es significativo porque no es el objetivo único del aprendizaje sino que implica que el profesor CLIL necesita tener en cuenta tanto los objetivos de materia como la lengua que se precisa, es decir, no sólo el currículo de la materia sino también el currículo lingüístico.
2) La materia que se estudia es la que determina el tipo de lenguaje que se necesita aprender.
Por tanto, tanto el vocabulario específico como las estructuras o los tipos de discurso (describir, relatar, etc.), y, también en parte, las destrezas lingüísticas que se pueden practicar (oir, escuchar, hablar, escribir o interaccionar) vendrán determinados sobre todo por la materia que se esté enseñando. Así en Física o Ciencias los alumnos aprenderán la lengua específica de esas materias y trabajarán con tipos de discurso propios de la ciencia.
3) La fluidez es más importante que la precisión gramatical y lingüística en general.
Esto es fundamental para que el aprendizaje tanto del contenido como de la lengua se desarrolle con confianza. No obstante será preciso aprovechar las oportunidades que surjan para prestar atención a la forma lingüística puesto que si se comenten muchos errores esto puede afectar a la comprensión y producción del contenido de materia. Un concepto clave para ayudar a trabajar la forma lingüística es el concepto de "andamiaje" o scaffolding en inglés.

Este planteamiento presenta sin duda aspectos muy positivos pero ¿es realmente viable tal y como se está planteando? 











Personalmente creo que antes de implementar una educación bilingüe en secundaria habría que replantearse el estudio de las lenguas extranjeras durante toda la etapa educativa, a partir de la educación primaria. En primer lugar habría que aumentar el número de horas de lenguas extranjeras; habría que garantizar una correcta formación del personal docente y sería conveniente contar con  la presencia de asistentes lingüísticos nativos en cada curso. De esta forma los alumnos irían adquiriendo unas competencias lingüísticas, cada vez más consolidadas, que les permitirían, en la etapa de secundaria, poder abracar también el estudio de otras asignaturas impartidas en el idioma extranjero.

Además, se podrían llevar a cabo experiencias como participación en proyectos internacionales o encuentros en el idioma extranjero con especialistas de diversos sectores profesionales, para que, en definitiva, el paso a un tipo de enseñanza bilingüe sea pautado, gradual y por lo tanto eficaz.

Por otra parte, habría también que plantearse una correcta formación lingüística del personal docente que vaya a impartir la asignatura en el idioma extranjero, con cursos de formación y fórmulas de evaluación externa que determinen si un docente, al margen de poseer una acreditación de nivel B1 está realmente capacitado para impartir sus clases en un idioma extranjero.



En conclusión considero que si bien es importante adecuarse a la realidad plurilingüe del escenario europeo actual, es también importante diseñar e implementar medidas de calado que partan de una reforma profunda y consensuada del sistema educativo y cuyos efectos perduren a largo plazo.

TEMA 3: LA EVALUACIÓN EN EL MARCO COMÚN DE REFERENCIA











En esta nueva entrada me dedicaré a hacer una breve descripción sobre los aspectos a tener en cuenta a la hora de realizar pruebas de evaluación según los parámetros descritos en el Marco Común de Referencia.
El Marco Común de Referencia propone escalas de descriptores del grado de dominio de las lenguas que proporcionan una base común para la evaluación de las competencias adquiridas por los alumnos en cada nivel.  En el propio documento podemos leer:

El Marco describe de forma integradora lo que tienen que aprender a hacer los estudiantes de lenguas con el fin de utilizar una lengua para comunicarse, así como los conocimientos y destrezas que tienen que desarrollar para poder actuar de manera eficaz. La descripción también comprende el contexto cultural donde se sitúa la lengua. El Marco de referencia define, asimismo, niveles de dominio de la lengua que permiten comprobar el progreso de los alumnos en cada fase del aprendizaje y a lo largo de su vida.  (Marco, 1.1)
Así, pues, con el ánimo de vencer las barreras producidas por los distintos sistemas educativos europeos, el
Marco:
[…]proporciona a los administradores educativos, a los diseñadores de cursos, a los profesores, a los formadores de profesores, a las entidades examinadoras, etc., los medios adecuados para que reflexionen sobre su propia práctica, con el fin de ubicar y coordinar sus esfuerzos y asegurar que éstos satisfagan las necesidades de sus alumnos. (Marco, 1.1)


Pero ¿que se entiende con “evaluar”?

En el capítulo 9 del MCR se hace referencia al concepto de evaluación, haciendo hincapié no tanto sobre su capacidad relacionada con el medir o valorar la competencia o el dominio de la lengua, cuanto más bien en un enfoque centrado sobre métodos y materiales concretos capaces de fortalecer la independencia de pensamiento, de juicio y de acción, que, a su vez deberán ser combinados con las destrezas sociales y la responsabilidad social.

Toda medición o valoración es una forma de evaluación, pero en un programa de lenguas se evalúan aspectos, no propiamente del dominio lingüístico, como la eficacia de métodos y materiales concretos, el tipo y la calidad del discurso producido a lo largo del programa, la satisfacción del alumno y del profesor, la eficacia de la enseñanza, etc.(Marco, 9.1)


Por lo tanto, podríamos decir que, en línea general, el Marco nos ofrece una doble dimensión: por un lado una dimensión VERTICAL, constituida por los niveles comunes de referencia que sirven para describir el grado de dominio lingüístico del alumno; y por el otro, una dimensión HORIZONTAL constituida por parámetros que describen el uso de la lengua y la habilidad del usuario para utilizarla, es decir actividad y competencia comunicativa.[1] Sin embargo, este aspecto puede ser muy difícil de integrar en la organización de las clases y en la evaluación, puesto que son estrategias.
Además, a la expresión, comprensión e interacción oral y escrita el Marco introduce también la comprensión audiovisual que resulta fundamental en una sociedad, como la actual, en la que las nuevas tecnologías han tomado un papel relevante.
Por lo tanto, a la hora de preparar una prueba de nivel, habrá que tener en cuenta todos estos elementos y, sobre todo, será necesario que los docentes, además de estar familiarizados con el Marco y con los criterios de evaluación en ello descritos, estén dispuestos a planificar de forma conjunta un tipo de prueba que tenga en cuenta estos parámetros. 
Desde la perspectiva del plurilingüismo, la finalidad de la enseñanza de una lengua extranjera ha quedado profundamente modificada, y por lo tanto, el aprendizaje de un idioma extranjero ya no se contempla como el simple logro del «dominio» aislado de una o dos lenguas, sino como el desarrollo de un repertorio lingüístico en el que tengan lugar todas las capacidades lingüísticas, lo que supone incrementar la complejidad de la preparación, si hacemos caso a ese objetivo.
En conclusión, podemos afirmar que, para responder a la demanda de una comunicación internacional más eficaz, al respeto por la identidad y la diversidad cultural, a un mejor acceso a la información, a una interacción personal más intensa, a una mejora de las relaciones de trabajo y a un entendimiento mutuo más profundo, el marco plantea el aprendizaje de idiomas a lo largo de toda la vida, estableciendo unas directrices para:

  • Propiciar y facilitar la cooperación entre las instituciones educativas de distintos países.
  •  Proporcionar una base sólida para el mutuo reconocimiento de certificados de lenguas.
  • Ayudar a los alumnos, a los profesores, a los diseñadores de cursos, a las instituciones examinadoras y a los administradores educativos a situar y a coordinar sus esfuerzos, Teniendo en cuenta las características de cada curso en concreto y del contexto del centro y tipo de enseñanza. 



[1] MCR, pág. 16