Durante
la lezione di oggi abbiamo riflettuto, tra le altre cose, sul concetto di
repertorio linguistico e sul fatto che, utilizzando una similitudine di Carlos
a mio avviso molto appropriata, il repertorio costituisce un armadio, un armadio in cui mettiamo abiti diversi che scegliamo di
indossare a seconda delle diverse situazioni.
Ed ecco che riflettendo sulla lezione, mi è tornato in mente
un articolo della scrittrice italiana Carmen Covito intitolato Alla ricerca della lingua italiana:l'Italiano integrato che credo possa
rappresentare un interessate spunto di riflessione sull’attuale situazione del
repertorio linguistico italiano.
Partendo dal concetto di lingua
nazionale e di cosa intendiamo per lingua nazionale, Carmen Covito fornisce una
chiave di lettura molto interessante e, a mio avviso, perfettamente condivisibile.
L’autrice esordisce affermando che
la lingua nazionale non è più un’utopia, bensì una realtà. Stando ai dati
pubblicati dalla Doxa, 86 italiani su 100 parlano l’italiano e, tra questi, 24
non usano più il dialetto, 62 sono in grado di alternare l’italiano e il
dialetto a seconda del contesto e solo 14 “individui”, paragonati a
dialettofoni in via di estinzione, usano solo il dialetto.
L’italiano standard
è, dunque, un dato di fatto e sicuramente sia la radio, ma soprattutto la
televisione, hanno portato avanti una vera e propria rivoluzione linguistica
che, in poco più di mezzo secolo, ha risolto la plurisecolare “questione della
lingua”.
Carmen Covito, una volta chiarito
che non spetta a lei accettare o respingere i nuovi usi linguistici, sostiene
che il suo compito, come scrittrice di romanzi, sia quello di captare e
registrare lo standard dell’italiano parlato, per poi integrarlo nella sua
scrittura letteraria.
All’interno del panorama della letteratura
italiana, Covito individua due tipologie di scrittori: da una parte gli “scrittori-letterati”
per i quali la lingua parlata non
solo “non esiste”, ma addirittura è
vista come un’intromissione che infastidisce; loro preferiscono continuare a
scrivere utilizzando registri aulici e si servono di una lingua “neutra, liscia, depilata e deodorata da
ogni sentore di vita”.
Questi scrittori, che spesso sono anche giovani
scrittori, ambiscono a scrivere “bene”,
laddove per “bene” si riferiscono esclusivamente al rispetto delle regole semantiche e stilistiche dell’italiano
normativo; la Covito li definisce C.N.S.E.A.D.N. (che non si è accorto di niente) per via del fatto che ignorano
l’importanza del dialogo che, invece, rappresenta il luogo privilegiato dove
far convergere tutte le ricchezze della lingua parlata, grazie ai gerghi, ai
dialettismi o alle sgrammaticature, che costruiscono un personaggio in seguito
smascherato dal lettore.
Inoltre, anche quando traducono, gli “scrittori-letterati”, molto spesso,
tendono a tradire il teso “appiattendolo”
e alzandolo verso un linguaggio aulico-letterario che non sempre rispetta
l’originale.
Contrapposta a questa
tipologia di scrittori, ci sono i nuovi narratori e i nuovissimi- nuovi che,
attraverso scelte completamente opposte, si servono del “parlato”
non perché non sappiano fare
diversamente, ma perché hanno adottato una scelta linguistica consapevole e
coerente con le loro tematiche.
Tuttavia, utilizzare sempre e solo
l’italiano standard potrebbe diventare una scelta non solo esclusiva, ma anche
escludente, poiché si perderebbe lo spessore dell’italiano letterario che,
seppure con i suoi limiti di artificiosità, è pur sempre dotato di una sua
storia e di una realtà che non può essere cancellata.
Per cui, posta difronte a questo
bivio, l’autrice propone una terza via
che si presenta come punto di
incontro tra la lingua letteraria e quella parlata e il cui maggior
rappresentante è, secondo lei, Alberto Arbasino, idolatrato come un’icona
stilistica dalle nuove generazioni.
La scelta di questa terza via ha come obiettivo quello di servirsi della duttilità e vitalità della lingua per
produrre testi narrativi che accolgano al loro interno tutti i diversi
registri, dai regionalismi, dialettismi, gerghi, parole straniere, ecc., ai
termini più colti e a un uso più elaborato della sintassi. L’importante è
saperli utilizzare al momento giusto e in un contesto appropriato.
Personalmente, sono d’accordo con Carmen Covito, poiché
Personalmente, sono d’accordo con Carmen Covito, poiché
considero che la grandezza della nostra lingua risieda proprio nella sua
varietà e nella sua camaleontica possibilità di sapersi adattare ad ogni
situazione. L’italiano, infatti, presenta un gran numero di sfumature, di
sinonimi, di aggettivi che consentono di descrivere un oggetto, un luogo o una persona
a seconda del contesto, del parlante o del momento storico; e questa grandezza
non possiamo perderla. Bisognerebbe, quindi, essere in grado di sfruttare tutte
le possibilità espressive offerte dalle situazioni reali e coniugare registri
alti, medi o bassi, a seconda del punto di vista di chi parla.
Solo così potremmo portare avanti quel processo di rinnovamento e, al tempo stesso, conservazione del nostro patrimonio linguistico.
Solo così potremmo portare avanti quel processo di rinnovamento e, al tempo stesso, conservazione del nostro patrimonio linguistico.